Web save the trash

Ho fame di case study virtuose in comunicazione web.
Gigioneggio per la rete su disparate categorie merceologiche e vengo assalito dall’inquietante omologazione.

Giochi tipografici, lettering obamiano alternato al sempreverde “Rockwell”, eleganti bandine a delineare i titoli. Da siti di food alle webzine, passando ovviamente per studi grafici, l’annullante etichetta del web design si mangia l’identità dei singoli contenuti. Un’attitudine inquietante, che  denota i nostri tempi: la rete non è più un mezzo, ma un soggetto pensante, con regole formali a sé che prevaricano il dna dei singoli brand.

Sentiamo spesso dire: “è molto web”! Cioè?

Un furgone ha un linguaggio diverso da una berlina. Non diciamo mai: “è molto quattroruote”.

Poi, come un raggio che fende la nebbia, lo trovo. Mi si palesa con la sua roboante autonomia, con la sua impopolare essenza nella forma e nel contenuto.

È Just Eat Italia, un’irriverente apologia del junk food, che per rispetto del proprio peculiare contenuto si presenta con un content plan squisitamente trash e con un mood grafico assolutamente in linea.
Io lo ringrazio, senza la minima ombra di ironia, perché  questo è stile, è coscienza di sé e rispetto della propria marca.

junkfood-justeat

Ma rappresentare un brand così “rumoroso” è facile. La vera sfida è quella dei brand mainstream, con prodotti più normali e pubblici più discreti.

Sono questi in grado di anteporre la propria identità agli stereotipi amorfi della digitalità globale?
A loro lancio un appello accorato: non snobbate il trash, a suo modo ha tantissimo da insegnare.