Elezioni francesi e comunicazione

Le elezioni francesi sono lo specchio di come il linguaggio digitale non sempre rifletta la realtà.

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Il grande conflitto che vede Emmanuel Macron sfidare Marine Le Pen sul filo del rasoio, non è una lotta tra chi è pro e chi è contro l’Europa.
Questa è la classica semplificazione che adatta il contenuto alla fruizione veloce e superficiale delle notizie online.

Tra chi vota si nasconde una percezione ben più subdola: la sovranità nazionale contro la Banca centrale europea. In questo manicheismo, perdono i partiti moderati che concepiscono un’Europa delle nazioni.

Siamo sicuri che i loro elettori, costretti a scegliere tra due estremi, non si astengano o peggio propendano a malincuore per il concetto di Stato?

 

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La storia recente ci dimostra che, pur di combattere l’establishment della Finanza, una massa sconfinata di elettori può arrivare a perdere la propria identità politica. In un mondo che ancora non si è ripreso dalla sorpresa di Trump, potremmo svegliarci con un’altra sconcertante realtà, che ribalterebbe l’attuale euforia dei mercati.

Ma speriamo di no.

Il Travaglio della rete

L’ho detto e lo ripeto. La televisione è e rimane il principale trend setter della rete.
Il dibattito politico intorno alla nuova tangentopoli del #Mose ne è l’esempio più lampante.

Fatta salva la prima ondata di indignazione, in cui i commenti forcaioli si diramano per legittimo dissenso verso i partiti coinvolti nello scandalo, il baricentro del dibattito si sposta dal fatto sull’opinione degli influencer.

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A generare buzz, ad esempio, sono spesso i commenti di Marco Travaglio, nel bene e nel male catalizzatore di interventi social. E non parlo dei retweet, ma dei commenti che hanno come oggetto di analisi non più la notizia, ma la sua opinione circa la notizia.

In rete si commentano i fatti di attualità, si interviene in modo più diretto e si contribuisce alla diffusione delle notizie, è vero.
Ma lo si fa tendendo ad aggregarsi intorno a un portavoce, comunque proveniente dai mass media.
A tal punto che il portavoce diventa la notizia stessa.

Possiamo quindi davvero parlare di una modalità di informazione più libera e plurale, o siamo semplicemente davanti a una maggiore capacità di riverbero dei contenuti di un oligopolio editoriale?

L’effetto Masini

Rilassatevi, digital strategist.
Ci sarà sempre qualcosa che sfuggirà al vostro controllo.

La rimpianta Mia Martini, nonostante fosse una delle più belle voci della musica leggera italiana, fu vessata dal cliché idiota della sfortuna. Stessa sorte è toccata a Marco Masini, di fatto non più crepuscolare di altri suoi colleghi meno bersagliati dal pubblico.

Non è colpa dello stratega se il mito della sfiga da un giorno all’altro ti veste di ignominia.

È successo anche alla povera Simmenthal, che ha ritratto lo sventurato Riccardo Montolivo “rimasto negli spogliatoi”.
Un’immagine tristemente profetica del destino del centrocampista in Brasile.

La crisi scatta anche a prescindere dalle intenzioni e la crisi degli innocenti è la più difficile da gestire, perché non ha un responsabile.

Come si muoverà il brand per assorbire l’impatto reputazionale del “fattore Masini”?
Sarà uno dei soggetti di osservazione più interessanti dei prossimi giorni.

 

Il primo amore

Beppe Grillo, per come l’ho visto da Vespa a Porta a Porta, potrebbe essere il protagonista di una love story.
La storia di un uomo che ha vissuto felice, per decenni, con una splendida donna, che gli ha regalato gli anni migliori della sua esistenza.
E che, come spesso avviene nelle misteriose vie dell’eros, un bel giorno, all’improvviso, viene lasciato, estromesso per sempre da quella vita.

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Il cuore di Beppe viene quindi rapito da una ragazza giovane. Così diversa dal suo primo amore.
Ama stare tra la gente, frequenta le piazze ed è politicamente attiva. Ma non in un partito: raccoglie democraticamente le persone intorno a cause civili.

La sua ex no: lei era borghese, un po’ autoreferenziale, politicamente equidistante e con un’etichetta molto poco flessibile.
Motivo per cui, in quel dannato 1986, ha cacciato di casa Beppe, colpevole di non saper dare un freno al suo eloquio delatorio.

La vita di Beppe cambia. Gli amici del suo vecchio amore lo ritenevano un grande, ma gli amici della sua nuova fidanzata lo reputano addirittura un idolo.
Tutto è più grande, più serio. Beppe è rinato.

Finché un giorno, quasi per caso, dopo molti anni, Beppe incontra la sua vecchia fiamma.
Passa con lei poco più di un’ora, e già tutti ne parlano, come se quella storia non fosse finita mai.

Quella vecchia ragazza si chiama televisione. Quel mezzo desueto, distorto, ingannatore. Nemico della rete, suo apparente nuovo amore.
Quel nuovo amore strumentale, dentro il quale Beppe non si è mai sentito veramente se stesso.

Il problema è che, in Italia, siamo tutti come Beppe.
Sentiamo tutti il bisogno di flirtare con la rete.
Ma amiamo ancora lasciarci sedurre, inerti, dalla vecchia editoria.

Il culo di Renzi

Inizio scusandomi. Questo post conterrà reiteratamente la parola “culo”.

Questo infatti è il protagonista della recente diatriba che ha riguardato il discusso post di Paola Bacchiddu, nella campagna elettorale per L’altra Europa con Tsipras. Dibattito che ha messo a nudo (scusate il gioco di parole) lo storico rapporto conflittuale tra la sinistra e la comunicazione “frivola”.

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Tempo fa, ad esempio, Matteo Renzi indossò una giovanilista giacca di pelle per reclutare  consensi presso Amici di Maria de Filippi, contenitore di un target fluttuante, tendenzialmente disimpegnato, propenso a votare più per empatia col leader che per affinità con i contenuti politici.

In quel caso gli intellettuali di sinistra gli fecero letteralmente il culo (e uno).
L’atteggiamento svelato è quello di una classe culturale attenta alla qualità dei voti più che alla quantità.

Oggi è di un altro culo (e due) che si parla, ma con obiettivi analoghi: la responsabile della comunicazione di una lista che, frustrata dalla poca evidenza riservata dai media, compie un gesto di rottura per incrementare visibilità.

Qual è la differenza? Che Renzi, attention getter del momento “pop” della campagna, era il leader. Era, cioè, nel contempo il soggetto e l’oggetto della comunicazione e catalizzava su di sé il gradimento dei “prospect” in studio.

L’ottima Bacchiddu, invece, è solo la responsabile della comunicazione. Il soggetto, cioè, che dovrebbe restare dietro le quinte per studiare le strategie di comunicazione e non esporsi in prima persona, tanto più in modo così appariscente e dal proprio profilo personale, slegato dal piano editoriale della lista.

Questo l’unico errore, a mio avviso, della sua campagna.
Nessun giudizio perbenista: a un bel culo non si comanda (e tre). Ma è stato un eccesso di zelo narcisista, che ha sotterrato nel percepito del pubblico l’identità di tutti i candidati di cui lei, per mandato, avrebbe dovuto enfatizzare la visibilità.

Un po’ come fa Oliviero Toscani, le cui pubblicità parlano di sé e mai dei suoi clienti, per quanto ben paganti.

Insomma, ancora una volta la politica e la comunicazione si dimostrano simili al poker: ci vuole strategia.
Non basta il culo (e stop).

Il Klout score di Genny ‘a carogna

La misurazione dell’influenza di un individuo è una questione aperta.
Sul digitale questa passa dalla sindrome del numero: l’influenza sarebbe misurabile attraverso algoritmi, come il Klout score, che attribuiscono un coefficiente al soggetto, in diretta proporzione con la quantità di feedback che questi genera sui  social network.

Questo fino a ieri, alla notte maledetta della finale di Coppa Italia.

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Genny ‘a carogna, con una comparsata, stravolge i criteri di numerabilità dell’influenza: passa agli “onori” (tengo molto al virgolettato) della cronaca in una serata in cui, da sostanziale sconosciuto alla mainstream, diventa l’individuo più influente in campo.

Se esistesse un real score, Gennaro avrebbe il punteggio più alto.
Su Klout, invece, Matteo Renzi è ancora in testa.

Sarò breve, nel lanciarmi in una riflessione.

Io ho un Klout score che si aggira stabilmente intorno al numero 60 che, per i non addetti ai lavori, corrisponde a un profilo medio-alto.

I momenti in cui interagisco maggiormente con il mio pubblico sono quelli in cui sono meno impegnato in sessioni di lavoro e di formazione.  Ho quindi tempo di sostare sul mio profilo Facebook, di twittare e di condividere i post di questo blog sul mio profilo Linkedin.

Insomma, i miei “picchi di influenza” in rete, che come professionista mi qualificano agli occhi dei miei clienti e prospect, sono paradossalmente i momenti in cui, per estremizzare il concetto, non ho un cazzo da fare. Sono, cioè, i momenti in cui la mia influenza reale sul mercato della comunicazione è estremamente ridotta da un punto di vista produttivo.

Quanto è attendibile quindi il numero, il feticcio digitale che consacra la credibilità di un professionista?
Quanto la mia digitalità è misurabile con strumenti digitali tout court?

Non esiste ancora un metodo digitale che sappia consacrare il potenziale di influenza offline, che rappresenta comunque più della metà della mia incidenza reale sui segmenti di pubblico di mio interesse.

Resta come unica bussola il concetto di appartenenza.
Nel mio caso alle aziende con cui lavoro e alla loro brand awareness.
Ma anche nel caso di Genny, affiliato all’”azienda” col più alto fatturato al mondo.

VIrale ante litteram

Gli aforismi sono virali, nella prassi del social networking.
Frasi sintetiche e lapidarie in cui ognuno di noi riconosce un brandello della propria vita.

Friedrich Nietzsche e Oscar Wilde, tanto per citare i più inflazionati, sono soliti rimbalzare sulle bacheche degli user meno originali, per riempire di senso il loro bisogno di scrivere, anche quando non c’è nulla da dire.

Oggi voglio ricordare un vero maestro dell’aforisma, che scomparendo ha consacrato la fine di un’epoca nella cultura pop del nostro paese.
Vujadin Boskov, icona di un calcio verace.
Mister di un Vialli ancora magro e di uno straordinario Beppe Dossena, che a giocate ragguardevoli affiancava senza imbarazzo le proprie maniglie dell’amore.

Vujadin Boskov

Lo ricordano tutti con rimpianto: i sampdoriani come me che nel suo sorriso vedono l’immagine di un’infanzia in festa, ma anche i nemici di parte genoana e tanti calciatori contemporanei, che non possono fare a meno di rendere omaggio alla storia.

Come Mirko Vucinic, uno dei più attivi sui social media, che non manca di ricordare il tecnico serbo dal suo profilo Twitter.

Un comunicatore virale in un’epoca in cui i “viral media” ancora non esistevano.
Un uomo che aveva intuito gli ingredienti sostanziali della viralità, non mancando mai di inserirli in ogni suo intervento: la sincerità, il rispetto per l’interlocutore, l’emozione, l’ironia.

Oggi #Vuja è un trend topic e la sola ragione per cui questo accade è la straordinaria spontaneità che Boskov ha saputo trasmettere in vita.

In fondo le regole del social media marketing sono regole di buon senso nella gestione delle relazioni umane, per acquisire le quali non ci sono corsi o master che tengano, se non si ha una squisita predisposizione allo stare al mondo.

Ciao Vuja, ci mancherai.