Prendo spunto da un vecchio articolo del blog di Paolo Ratto, sempre contenitore di consigli utili e di riflessioni strategiche di buon livello, e rievoco contestualmente la memoria di David Ogilvy, per parlare qualitativamente di target.
Tra i consigli relativi alla profilazione, nella seconda metà dell’articolo citato si fa in sostanza notare che il pubblico che ha dimostrato apprezzamento per un brand non necessariamente è un target di acquisto.
Per essere sicuri che chi apprezza il nostro brand ne acquisti anche i prodotti è opportuno segmentare la campagna usando come keyword anche “status symbol laterali”, cioè altre marche o passioni che possano identificare il pubblico “socialmente” (ad es. target: Ferrari; status symbol laterali: Rolls-Royce, golf, Forex, etc.).
Nessuna critica sulla qualità del consiglio, decisamente acuto.
Solo una riflessione sul trend che esso denota.
Il pubblico di una campagna social è considerato pertinente solo se potenziale compratore?
Purtroppo sì, la mia esperienza diretta con clienti di vario livello è sempre questa: considerano Facebook come un bacino di possibili acquirenti, come un database di contatti “below the line”.
Questo è il punto nevralgico: non dobbiamo vendere a tutti i costi.
Ben venga il pubblico di ambasciatori puri. Di gente normale che guarda il nostro brand con aria sognante.
Questo “volerlo senza poterlo” contribuisce a edificarne il posizionamento nel percepito comune e questo obiettivo non si può perdere di vista.
Quando David Ogilvy argomentava un’auto, paragonandone il rumore al ticchettio di un orologio, non parlava solo a chi poteva comprare quell’auto.
Parlava a tutti quelli che, nella propria rumorosa utilitaria, appiccicavano delusi l’orologio all’orecchio, sognando il giorno in cui il “tic tic” avrebbe sostituito il sottofondo sferragliante.