Web save the trash

Ho fame di case study virtuose in comunicazione web.
Gigioneggio per la rete su disparate categorie merceologiche e vengo assalito dall’inquietante omologazione.

Giochi tipografici, lettering obamiano alternato al sempreverde “Rockwell”, eleganti bandine a delineare i titoli. Da siti di food alle webzine, passando ovviamente per studi grafici, l’annullante etichetta del web design si mangia l’identità dei singoli contenuti. Un’attitudine inquietante, che  denota i nostri tempi: la rete non è più un mezzo, ma un soggetto pensante, con regole formali a sé che prevaricano il dna dei singoli brand.

Sentiamo spesso dire: “è molto web”! Cioè?

Un furgone ha un linguaggio diverso da una berlina. Non diciamo mai: “è molto quattroruote”.

Poi, come un raggio che fende la nebbia, lo trovo. Mi si palesa con la sua roboante autonomia, con la sua impopolare essenza nella forma e nel contenuto.

È Just Eat Italia, un’irriverente apologia del junk food, che per rispetto del proprio peculiare contenuto si presenta con un content plan squisitamente trash e con un mood grafico assolutamente in linea.
Io lo ringrazio, senza la minima ombra di ironia, perché  questo è stile, è coscienza di sé e rispetto della propria marca.

junkfood-justeat

Ma rappresentare un brand così “rumoroso” è facile. La vera sfida è quella dei brand mainstream, con prodotti più normali e pubblici più discreti.

Sono questi in grado di anteporre la propria identità agli stereotipi amorfi della digitalità globale?
A loro lancio un appello accorato: non snobbate il trash, a suo modo ha tantissimo da insegnare.

Liberi tutti!

Una cosa che trovo “sucking” dei media che parlano di digital è che sono totalizzanti.
Parlano infatti di digital anche quando l’attualità offre altre priorità.

Ad esempio, oggi l’unica cosa che mi sento di dire è: buona Festa della Liberazione!
A tutti, senza mai darlo per scontato.
E dall’assillo del digitale, coerentemente con il mood della giornata, urlo: “liberi tutti”!

25_aprile

La banalità del SEO

Oggi voglio scrivere una banalità. Non per minimizzare il mio lavoro, ma per essere rassicurante.

Mi inteneriscono infatti i clienti che, al pronunciare la parola SEO, vanno fuori di testa, rinunciando a poter penetrare nei meandri dell’algoritmo con cui Google decreta chi sia degno di essere trovato. Costoro hanno bisogno di banalità.

Prima di interpellare un SEO specialist, che va comunque chiamato in causa, se si vuole massimizzare la performance del nostro sito, ci sono comunque alcune regole basic a cui possiamo attenerci per iniziare a fare un lavoro discreto.

A monte delle regole di Search Engine Optimization ci sono infatti le norme del buon senso. La naturale predisposizione a darsi risposte sensate a domande banali. Ad esempio: “come faccio a trovare le cose in una miriade di oggetti simili?”, domanda che riassume il senso del posizionamento organico.
A tale domanda risponderei, banalmente: “mettendole in ordine“.

Troppo spesso l’ingenuo giudica un sito a partire dalla home page.
Iniziamo diversamente: giochiamo, prima di rappresentare graficamente i contenuti, a disporli come scarpe in una dispensa. Gli scaffali sono le directory.

Metafora del SEO

Metafora -> casa://dispensa/scarpe_da_sera/tacco/nuove

Immaginiamo di costruire un sito con lo stesso criterio con cui disponiamo la merce su uno scaffale: ai primi livelli le cose più importanti, allontanando via via gli oggetti d’archivio, che non usiamo più.
Creiamo sottocategorie che rendano le sezioni monotematiche (non metteremmo le ballerine insieme alle Nike da running).

Insomma, disponiamo tutto in modo che un estraneo, nella nostra dispensa, possa rispondere positivamente alla criptica domanda “mi passi le mie scarpe preferite”?

Google deve intuire la gerarchia dei contenuti come il nostro estraneo, ragionevolmente, potrà capire quali siano le nostre scarpe del cuore deducendolo dalla loro disposizione sul nostro “sito”.

Una metafora analogica spesso scioglie le ansie da digitale e i clienti cominciano a progettare il proprio sito in modo più consono.
Così il SEO specialist, una volta convocato, potrà fare il suo lavoro di perfezionamento senza sprecare le prime ore in inutili bestemmie.

Socialpolitik

C’è un brand che sembra contraddire ogni regola social.
In un mondo, quello digitale, in cui vince la verticalizzazione e la segmentazione del pubblico, c’è una marca che sembra vincere per l’attitudine opposta. Quella di essere generalista.
Quella marca si chiama Matteo Renzi.

Me lo rivela ingenuamente Facebook. Dopo aver messo un like a un post del premier, relativo alla sua autoesclusione dalla partita del cuore, il social network mi propone una finestra con 4 pagine simili a quella del Presidente del Consiglio, lasciandomi solo a riflettere sul possibile trait d’union.

Image

Simili a Matteo Renzi: Crozza, Berlinguer, Gino Strada e Fiorello

4 icone per 4 differenti categorie: satira politica, politica di partito, politica di società civile e cultura popolare.

Nel bene e nel male Renzi è presente in tutte queste categorie come protagonista. Allora mi chiedo, che cosa c’è di digital nella sua attitudine comunicativa, se la forbice del suo target è così ampia?

Mi rispondo: sa differenziare il linguaggio in ogni contesto. Dal giubbotto di pelle di Amici al faccia a faccia via Twitter con Beppe Grillo, sa giocare ad armi pari su media diversi e con i rispettivi linguaggi, dote che è sempre mancata a suoi “monomediatici” predecessori come Veltroni o Bersani.

Il social network è coestensivo al mondo reale e lo spunto di Facebook è sibillino.
Renzi è un contenitore variegato, ma non ha un solo target generalista. Presidia contemporaneamente sottoinsiemi di pubblico differenziati e, nella sintesi di questi segmenti, sta portando a casa risultati numerici importanti (si vedano le ultime statistiche, con un Pd ai massimi storici).

Finisco la mia elucubrazione con un sospiro di sollievo. Renzi non sovverte le regole della segmentazione.
Semplicemente si sbatte per presidiare un maggior numero di segmenti.

Vendere a tutti i costi

Prendo spunto da un vecchio articolo del blog di Paolo Ratto, sempre contenitore di consigli utili e di riflessioni strategiche di buon livello, e rievoco contestualmente la memoria di David Ogilvy, per parlare qualitativamente di target.

Tra i consigli relativi alla profilazione, nella seconda metà dell’articolo citato si fa in sostanza notare che il pubblico che ha dimostrato apprezzamento per un brand non necessariamente è un target di acquisto.

David Ogilvy

Per essere sicuri che chi apprezza il nostro brand ne acquisti anche i prodotti è opportuno segmentare la campagna usando come keyword anche “status symbol laterali”, cioè altre marche o passioni che possano identificare il pubblico “socialmente” (ad es. target: Ferrari; status symbol laterali: Rolls-Royce, golf, Forex, etc.).

Nessuna critica sulla qualità del consiglio, decisamente acuto.
Solo una riflessione sul trend che esso denota.

Il pubblico di una campagna social è considerato pertinente solo se potenziale compratore?
Purtroppo sì, la mia esperienza diretta con clienti di vario livello è sempre questa: considerano Facebook come un bacino di possibili acquirenti, come un database di contatti “below the line”.

Questo è il punto nevralgico: non dobbiamo vendere a tutti i costi.
Ben venga il pubblico di ambasciatori puri. Di gente normale che guarda il nostro brand con aria sognante.
Questo “volerlo senza poterlo” contribuisce a edificarne il posizionamento nel percepito comune e questo obiettivo non si può perdere di vista.

Quando David Ogilvy argomentava un’auto, paragonandone il rumore al ticchettio di un orologio, non parlava solo a chi poteva comprare quell’auto.
Parlava a tutti quelli che, nella propria rumorosa utilitaria, appiccicavano delusi l’orologio all’orecchio, sognando il giorno in cui il “tic tic” avrebbe sostituito il sottofondo sferragliante.

Malvenuti

Ciao a tutti. Sgombriamo subito il campo da dubbi.
Digital sucks è una provocazione.

digital-guru

Non è una forma di luddismo, né la stucchevole istanza dei vecchi uomini di marketing, che per giustificare il proprio irragionevole stipendio tendono a snobbare le competenze che non hanno.

È piuttosto un appello contro la sublimazione che il marketing ha subito negli ultimi tempi, riducendosi spesso a tecnicismo, idolatria del numero e obsolescenza del contenuto.

Ma soprattutto è un appello ai media guru e agli influencer che affollano i nostri news feed, a quelli che alla temperatura sociale della Crimea antepongono l’update dell’algoritmo di Facebook. Ecco, a loro chiedo di riflettere su quanto un contenuto, prima di essere SEO friendly, sia friendly in senso generale.

Insomma, digital sucks è una captatio malevolentiae, per spingere gli addetti ai lavori a parlare di comunicazione, e non solo di mezzi di comunicazione.

Stay connected.